Suoni

Suoni. Tantissimi suoni. Macbettu è un’unione e uno scontro di suoni: diversi ed uguali. Già dall’inizio capiamo che sarà uno spettacolo duro, rumoroso, che segnerà una parte di ogni spettatore. Si inizia col vento. Un rumore sempre più forte, più spaventoso e più cupo. Tutto rimbomba all’interno del petto dello spettatore, l’udito è quasi violentato. Nulla è pacato, nulla è tranquillo. Solo un travolgente impatto. Le campane al collo delle streghe tintinnano, insistenti, fanno sorridere il pubblico dopo tanta inquietudine, tanta disumanità. Qualcuno bussa alla porta dell’inferno: incessantemente, sempre più forte, non un minuto di silenzio, non un secondo di pace, non un secondo vuoto. Quel suono cupo, tenebroso e cavernoso fa quasi entrare anche colui che assiste all’inferno. Un tavolo che cade, sassi che vengono lanciati e cadono, versi di animali. La scena dei porci: l’uomo ridotto al livello di un animale, di una bestia. Pensa solo a mangiare, a raggiungere la preda, Macbeth pensa solo ad uccidere un altro uomo per mantenere il suo titolo. Uomini come porci attorno a un piattello, grida, grugniti: la scena è terribile. Banco appare a Macbeth durante un banchetto, cammina sopra il pane sul tavolo. Si sente solo lo scricchiolio di questo che si spezza. Quasi silenzio. Lo spettatore ha il tempo per capire, per riflettere, un solo secondo. Ritorna la voce di Macbeth sempre più forte, urla, impazzisce con quel dialetto sardo che lo accompagna.

Macbettu è un insieme incredibile di suoni, uno dopo l’altro, nessuno è casuale, nessuno passa inosservato, tutto si scaglia e si imprime nello spettatore che non può fare altro che sentire il suo petto vibrare ad ogni suono insieme a quello degli attori.

Giulia Mioni