Il mio braccio

Era il 26 novembre 2018, quando anche nella mia vita si sbarrò un cancello. Stavo pedalando, quando improvvisamente la ruota anteriore della bici si bloccò; dopo una capriola non del tutto aggraziata, mi SCHIANTAI a terra. Un dolore atroce al braccio destro. Lo guardo. Ha praticamente perso la sua forma normale. Penso: “Cavolo! Ho rotto proprio il destro! E ora come faccio a scrivere??”. È poi tutto succede molto velocemente. All’ospedale l’ortopedico, particolarmente cupo e introverso, vedendo le radiografie afferma: “Ci vediamo in sala operatoria”. Avrei voluto morire. Trascorsi ben due ore in quella benedetta sala, ovviamente, un po’ come la bella addormentata nel bosco, incosciente per l’anestesia. Al mio risveglio, mio malgrado non grazie al bacio del principe azzurro, avevo il gesso che dalla mano bloccava tutto fin quasi alla spalla. Io amo correre, ma non potevo farlo; pensavo: “se solo me lo avessero amputato, potrei”, non rendendomi conto dell’immaturità del mio pensiero. Non potevo più giocare a calcio: se prima mi piaceva stare in porta, in quel momento non potevo fare altro che fare il tifo per il portiere. Non potevo più scrivere con la mano destra. Un trauma per me. Mi sono ritrovata a fare gli esercizi di grafia che si fanno in prima elementare per cercare di imparare a scrivere anche con la sinistra in modo leggibile. Per non parlare della difficoltà nel trasportare i libri di scuola e soprattutto i dizionari, che da sfogliare con una sola mano rappresentavano una sfida ad ogni versione. Ogni qual volta passavo davanti al mio pianoforte, soffrivo. Quei tasti, bianchi e neri, perfetti e luccicanti, sembravano chiamarmi; ma purtroppo potevo limitarmi a sfiorarli e accarezzarli, cercando da loro un minimo conforto. Nonostante io pregassi con tutte le mie forze che si aggiustassero le mie ossa, ad ogni visita le lastre rivelavano che il callo osseo era inesistente, non sufficiente o in formazione… e ogni volta non facevo altro che allagare con le mie lacrime la stanza. Dopo ben settantaquattro giorni mi liberarono. Mi pareva quasi di volare. Mi sentivo leggera, più che mai. Rielaborai moltissimi sentimenti, sensazioni, emozioni provati in quei settantaquattro giorni solo dopo del tempo, ma oggi posso affermare che quel gesso, che per me era come una prigione, mi insegnò l’importanza della riflessione, del saper anche stare da soli e del vedere il mondo in una dimensione più rallentata, come in un video in moviola; tutte abilità che pian piano acquisii. Il mio braccio non tornò più come prima: ancora oggi è un pochino storto, ma mi piace di più così; è diverso, è unico. E quando lo ammiro ripenso a quel cancello, che seppur sbarrandomi la strada, mi cambiò la vita.

Lucrezia Pellizzari