Padre-figlio

Prima di recarmi allo spettacolo, sospettavo che la rappresentazione si sarebbe rivelata noiosa e pesante. Non avevo mai assistito ad un monologo teatrale, di conseguenza non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Tuttavia, sin dal primo momento in cui Paolini è entrato in scena, è stato in grado di mettere lo spettatore in una condizione di familiarità e di renderlo partecipe delle vicende; simile ad un padre che, con qualche risata e magari un occasionale rimprovero, insegna al figlio ad affrontare la vita e ad essere cosciente di se stesso. Proprio le sequenze in cui viene rappresentato il rapporto tra padre e figlio sono quelle che più mi hanno emozionata, riuscendo a coinvolgermi in un qualcosa come la maternità (o paternità) che ancora mi è estraneo, ma che ho comunque sentito vicino. È evidente l’esperienza teatrale di Paolini: ogni gesto compiuto sul palco rivela una certa dose di autocoscienza e di consapevolezza di ciò che si sta facendo; nulla è casuale e qualsiasi movimento è finalizzato a rivelare un messaggio superiore all’apparenza. Questa è la sensazione che Paolini mi ha dato mentre si muoveva in scena. L’unico aspetto che non ho apprezzato e ho trovato frustrante sono state le sequenze telefoniche. Spezzavano il ritmo della narrazione, utilizzando una tecnica narrativa completamente diversa dal monologo e secondo me poco conciliabile con esso. Malgrado questo fattore, la rappresentazione è stata perfettamente godibile e personalmente le due ore non mi sono pesate quasi per nulla. Speravo piuttosto che durasse di più, che venisse dato maggior spazio al finale e non lasciasse lo spettatore proprio nel momento di massima tensione. Questo l’ho trovato fastidioso e forse un po’ comodo, ma mi ha lasciato comunque in mente vari spunti di riflessione nel momento di uscita dal teatro, in particolare inerenti alla mia generazione, al suo rapporto con la tecnologia e come quest’ultima influenza la mia vita.

Agnese Pegoraro