Se qualcuno ti invitasse a uno spettacolo teatrale  ci andresti? Probabilmente si.
Ma se ti dicessero che dovresti sederti sul palco e che gli attori userebbero la platea come scena, accetteresti lo stesso? Qui cominciano i dubbi.
Eppure la caduta della quarta parete e il fatto di vedere una Lady Macbeth morente a pochi centimetri da te, talmente vicino da poter notare il ritmo leggermente alterato del respiro e la stanchezza accennata nel volto, crea allo stesso tempo angoscia e meraviglia come quando si guarda qualcosa di troppo grande ma incredibilmente bello.
Nonostante qualcuno possa non conoscere la storia faticando così a seguirla, essere al centro della scena consente di comprendere il racconto attraverso le espressioni e i gesti degli artisti.
È un’esperienza travolgente e inconsueta che permettere di vivere lo spettacolo totalmente e di vedere ogni scena da una prospettiva diversa da quella abituale, ritrovandosi così nel bel mezzo di un turbinio di sensazioni vive suscitate da innumerevoli giochi di sguardi e contatti visivi che si creano tra lo spettatore e gli attori che trasportano il pubblico in una dimensione più intima ed elevata della rappresentazione.
Matilde Cazzola

Oddio sta parlando con me? Cosa faccio? Le sorrido? No, meglio che guardi dall’altra parte. Macbeth mi fa proprio paura… Uff, per fortuna che se n’è andata… Questi attori invadenti mi mettono troppa ansia, mi sento fin troppo coinvolta nella storia. Manca poco che diventi anch’io come Macbeth e inizi a uccidere chi mi dà fastidio…

Comunque, tornando allo spettacolo, devo dire che trovarmi a così stretto contatto con la compagnia teatrale è stato allo stesso tempo emozionante ma molto imbarazzante, poiché se da una parte ero talmente coinvolta dalla tragedia che mi dimenticavo di ciò che mi stava attorno, dall’altra la stessa vicinanza con le attrici metteva a disagio e in difficoltà di fronte a scene così forti. Mossa dall’inquietudine non sapevo che cos’altro fare se non lasciarmi trasportare dal male del protagonista, e penso che questo fosse proprio lo scopo che i registi avevano intenzione di raggiungere con questa singolare disposizione.

 Giulia Ciscato

La prima cosa che ho notato la sera in cui sono andata a vedere “Macbeth?” al Teatro Civico è stata l’organizzazione dello spazio; di come la platea era disposta.

La quarta parete caduta e il pubblico che arriva e scopre che farà parte della scena teatrale; inaspettato, durante lo spettacolo il palcoscenico è tutto attorno a te, si deve girare la testa per seguire i movimenti dei personaggi, si diventa complici delle loro azioni più intime e tormentate.

Un forte impatto emotivo, non c’era la protezione dello schermo a cui siamo abituati, e nemmeno la lontananza che di solito caratterizza gli spettacoli teatrali, ovviamente lo si vive in modo diverso, uno guardo scambiato con gli attori ti lascia come sospeso, o forse turbato, scosso da quella violazione che è stata il contatto visivo.

Inoltre oserei definire surreali i video in bianco e nero proiettati sulla parete di sfondo; catturavano particolari che dalla propria seduta non si riuscivano a cogliere, e in certi momenti l’occhio cadeva là, al posto della scena che si aveva davanti, un altro modo affascinante di vivere la scena.

Attraverso Francesca Botti e Patrizia Zanco, che interpretano rispettivamente Lady Macbeth e Macbeth, scopriamo e ci rendiamo conto che anche i personaggi che per tutta la scena sono malvagi e agiscono con cattiveria pensando solo a sé stessi hanno lati meno crudeli, sono deboli, fragili e molto insicuri, proprio come noi, e ci fanno quasi compassione.

In base alla mia esperienza, le tre attrici sono riuscite a far arrivare il Macbeth di Shakespeare anche a chi lo aveva solo sentito nominare e non aveva idea di cosa parlasse; e sono riuscite nel loro intento senza stereotipare i personaggi, anzi arricchendoli con la loro femminilità: abbiamo conosciuto alcuni lati femminili di Macbeth, amplificati grazie all’attrice, e la bravura è stata anche nel fare il contrario con Lady Macbeth, di cui abbiamo visto lati molto maschili.

Durante la visione veniva da chiedersi: “E se io fossi in loro cosa farei? Agirei nello stesso modo o cercherei un modo migliore per affrontare i loro problemi? Ce la farei a sostenere il peso delle loro bugie, delle loro azioni?”. E ci si rende conto che non è così semplice, sono cose che se le vivessi sulla tua pelle non ci dormiresti di notte e ti resta lo spunto di riflessione anche quando lo spettacolo è terminato.

Giulia Chiumento

 

Il primo colpo lo prendi appena entri in teatro e ci trovi il solito invalicabile muro di spettatori spartito da una striscia di pavimento larga pochi metri che prosegue indisturbata fino al palco. Gli spettatori siedono ovunque, sul palco stesso, ma tutti rivolti verso questa Via Crucis shakespeariana. Le prime file sono a suo diretto contatto, non ci sono recinzioni a proteggere lo spettatore dalla storia di Macbeth. E quando lo spettacolo inizia, tutto succede a un palmo dal tuo naso, le tre attrici ti fissano e ti parlano come se fossi tu stesso uno degli attori. È questo l’ultimo colpo di ariete che determina la caduta del quarto muro. Ma cosa significa il suo crollo in una storia come quella di Macbeth?

Macbeth e Lady Macbeth sono due figure che nell’approssimazione della cultura generale possono sembrare meri simboli e allegorie, potenti senza dubbio, ma da noi lontanti e non proprio concreti. Insomma, se la storia avesse voluto sembrare realistica chi avrebbe fatto compiere ai protagonisti degli atti così disumani? Chi mai avrebbe inserito il dettaglio soprannaturale delle streghe? Chi diamine avrebbe chiamato “Lady Macbeth” la moglie di uno che per primo si chiama “Macbeth”? Well. Shakespeare.

Il punto di questa tragedia shakespeariana sta nel comprendere e riconoscere quanto le terribili parole, scelte e azioni dei personaggi ci siano vicini. Quanto sia indefinito il confine fra ciò che porta al compimento del primo sacrilego omicidio: la profezia delle streghe e l’insistenza di Lady Macbeth o l’effettiva brama di potere di Macbeth. Quanto la totalizzante spietatezza e vanagloria di Lady Macbeth si tramutino velocemente in ossessivo rimorso, fino alla pazzia e alla morte. Quanto l’invidia, l’impulsività, la cattiveria, il rimpianto e l’ossessione facciano parte della nostra quotidianità, anche se non con queste iperboliche modalità.

È questo che la particolare disposizione dei sedili in Macbeth? ci svela. In queste inusuali ma ben riuscite condizioni, tutti noi ci sentiamo e siamo i servi che potrebbero essere incolpati di uno degli omicidi dei coniugi o che dovranno tacerli; siamo la nobiltà che farà finta di non sospettare la terribile verità che si cela sotto al bizzarro comportamento di Macbeth al banchetto. In ogni situazione, siamo costantemente testimoni e complici di ogni atrocità commessa.

Ci sono inoltre i personaggi minori interpretati da Beatrice Niero, quelli in cui è più facile trovare comprensione e conforto, meno tragici e più ironici, imperfetti come i personaggi di Patricia Zanco e Francesca Botti, ma in modo più blando e accettabile.

Oltre a questo brillante quanto nodale elemento, lo spettacolo ha dei picchi di coolness pazzesca, come l’entrata in scena di Lady Macbeth cantando Bang Bang (My Baby Shot Me Down) di Nancy Sinatra, o il momento in cui il portiere e Macbeth vanno a farsi un tiro di sigaretta, e l’aroma del tabacco ti pizzica le narici. Anche la presenza di un “regista live” che riprende in tempo reale gli avvenimenti, o i dettagli di essi, e questi siano proiettati sulla parete, è un elemento molto felice, reso anche più interessante dal fatto che il “regista” improvvisi le sue riprese ad ogni spettacolo.

Infine, Macbeth? di Patricia Zanco porta in scena l’attualissima questione dell’immagine fisica e psicologica della donna e in parte anche la questione gender. Tutte e tre le interpreti sono donne, ma donne diverse esteticamente e caratterialmente. C’è un modello definito a cui ogni donna deve aderire, o a cui per natura è portata? È una forzatura che una Donna™ si metta nei panni di un Uomo™, e viceversa? Ha senso dire “mettersi nei panni di un uomo/donna” in senso così vago e generale? E c’è davvero uno iato così invalicabile fra come possono essere ciò che possono avere un uomo e una donna? Forse è ancora presto per rispondere, ma non per aprire il dibattito.

Sofia Costanza Perilli

BOOM.

Entro in teatro e qualcosa non mi torna.

BOOM.

In teatrole cose stanno così: la platea è il posto privilegiato da cui vedere lo spettacolo, la galleria un po’ meno, il palco sta là, il sipario è rosso, si apre e si chiude, gli attori stanno in scena o escono, dietro le quinte. Questo in sostanza.

BOOM.

Perché sono seduta sul palco? Non sono un’attrice e di solito non siedo nemmeno in platea.. il privilegio mi sembra davvero troppo, eppure.. sono qui. Le sedie non sono più in file ordinate, ma sono disposte in due schiere che formano un corridoio abbastanza stretto al centro; dovrebbero recitare lì gli attori?

Sì sì, recitano proprio lì! È quasi divertente i primi minuti, non avevo mai visto gli attori così vicini: come ho detto, non siedo quasi mai in platea, ma immagino che comunque la sensazione non sarebbe la stessa. Erano proprio lì gli attori. E con lì intendo , che continuavo a pensare “se allungo la mano la tocco… no, dai mi prenderebbero per pazza.. però.. certo che è vicina, guarda il microfono che lampeggia”

Persino, un’attrice mi guarda fissa negli occhi, in un modo così penetrante così invasivo così intimo così normale in qualsiasi altro contesto.

BOOM.

Non ho più chiaro cosa sia il concetto di spettacolo teatrale: le attrici sono tutte così vicine, così dirette.. così qui.

BOOM.

È caduta la quarta parete.

Iris Smiderle

Cosa succede se cade la quarta parete e il pubblico si ritrova improvvisamente all’interno della scena teatrale? Cosa si prova a non distinguere più la platea del palcoscenico, a trovarsi interpellati dagli attori, a diventare noi stessi personaggi e testimoni dell’intreccio drammaturgico?

Con il Macbeth di Patricia Zanco abbiamo sperimentato su noi stessi il capovolgimento dello spazio teatrale, la non-definizione dei confini – rassicuranti – che separano spettatori e attori. Cosa abbiamo provato? Quanto Macbeth è diventato parte di noi?

Boom di Iris Smiderle
Macbeth? di Sofia Costanza Perilli
Surrealismo scenico di Giulia Chiumento
Oddio, sta parlando con me? di Giulia Ciscato
Essere al centro della scena di Matilde Cazzola
Vuoto e pieno di Rachele Dalla Vecchia
Sussulto di Eleonora Sartore
Fantasmi di Cristina Vaduva
Quando un muro cade di Stefano De Rigo
I cocci della quarta parete di Gaia Rappo
Macbeth? This is the question di Cristina Alina Vaduva
Riusciresti a guardare negli occhi un uomo che muore? di Rachele Sandonà
Tradimento? Fiducia? di Francesca Catelan

—I numeri primi sono affascinanti: individualisti, testardi, solitari. Non si concedono a nessuno se non a se stessi. Non sono nient’altro se non se stessi. È un privilegio (o una condanna) essere numeri primi, è per quei pochi che sono forti abbastanza da preservare la propria integrità, a costo di scombinare ogni cosa. E tra di noi? Nel mondo dei social network, dove la propria immagine viene minuziosamente costruita perché sia vista, copiata, apprezzata dagli altri, esiste ancora qualcuno che sa essere semplicemente multiplo di se stesso? Con gli occhi sempre nostalgicamente rivolti al passato, i pre-tecnologici risponderebbero che no, che l’amore, la fiducia, l’amicizia si sono smarriti nei labirintici circuiti di un computer, e mai li hanno ritrovati. Privi di fantasia, incapaci di sognare, per i propri figli, un futuro diverso dal loro: la giostra gira troppo in fretta, i pre-tecnologici non vedono il bambino, con un occhio verde e uno molto di più, che tende loro la mano. Non ci credono più, nei bambini. Qualcuno, invece, resta sulla giostra, qualcuno spera ancora di essere scelto, all’improvviso, per diventare parte di un miracolo. Qualcuno resta, e il miracolo arriva. Ha un occhio verde e uno molto di più, lo sguardo saggio e la voce innocente, si chiama Numero Primo. Dice di andare a casa, perché piove. Dice “papà”. Numero Primo ricorda a tutti i disincantati cronici che due solitudini talvolta possono farsi compagnia, che la tecnologia non può distruggere gli uomini, ma sono gli uomini a distruggere se stessi, che la magia esiste ancora, basta saperla vedere.

Rachele Sandonà

Sono stati parecchi i momenti che mi hanno toccato ed emozionato durante la rappresentazione teatrale “Le avventure di Numero Primo” di Marco Paolini, infatti in gran parte dello spettacolo si potevano interpretare svariati messaggi. Il momento che mi ha colpito e commosso di più è stato senz’altro verso la fine, quando Ettore (padre del protagonista) per distrazione perde Numero Primo e non lo vede più. È proprio qua che Ettore si rende veramente conto di quanto tiene e si era affezionato al figlio. Un figlio che gli è arrivato quasi per caso all’età di sessant’anni. Un figlio che da un giorno all’altro si ritrova in casa e gli sconvolge la sua semplice vita. Un figlio che è stato concepito e messo al mondo da un’intelligenza artificiale. Non è una creatura uguale alle altre, non conosce quasi niente, tutto gli appare nuovo, bello; possiede il dono di trovare la magia nelle cose più comuni. Numero Primo è figlio della tecnologia.
Ed è proprio attraverso Numero Primo che Marco Paolini discute sul futuro. Un futuro che è appunto governato dall’innovazione tecnologica e che ci lascia in balia delle preoccupazione in quanto consapevoli della stato di impotenza che abbiamo di fronte ad essa. Ma in fondo, come ribadisce lo stesso Paolini, ciò che nasce dopo di noi è tecnologia. E nonostante tutto ci lascia un’interpretazione che vede in quest’ ultima anche dei lati positivi che potrebbero aiutarci e, magari, anche migliorarci.

Gaia Maria Rizzato

“Noi siamo diventando proprio bagnati. Apri l’ombrello, papà”.
Una voce. Una mano tesa verso la tua. Due occhi, uno verde e uno molto di più. La giostra gira, la musica riparte. “Noi siamo diventando proprio bagnati”. Un rapido sguardo verso l’ombrello, poi verso il bambino e infine verso l’ombrello ancora. Sinistra, destra, sinistra.
“Apri l’ombrello, papà”. Le gocce cadono sull’asfalto, in fila, una dopo l’altra, stanno tenendo il ritmo. La giostra, la musica, la pioggia, il bambino, le tue perplessità. Questo è troppo, e quando è troppo è troppo.
Uno non è che può trovarsi a fare il padre così, da un giorno all’altro, in piedi, su una giostra, sotto la pioggia, e per di più pretendere di essere in grado di farlo. “Apri l’ombrello, papà”.
La vocina innocente che riecheggia dentro la tua testa, l’immagine di due occhioni imploranti che si ripete, la manina che agitandosi spera di spazzar via i tuoi pensieri per fare un po’ di spazio anche ai suoi, chi eri prima per chi diventerai. E allora tu, in piedi, su una giostra che gira non curante di chi vi è sopra, sotto la pioggia che cade non curante di chi vi è sotto, tu che cosa fai?
“Noi siamo diventando proprio bagnati. Apri l’ombrello, papà”.
Una mano prende quella del bambino, l’altra afferra il manico dell’ombrello. Un passo per saltar giù dalla giostra, poi altri cinquemila.

Eleonora Sartore

“Noi siamo diventando proprio coraggiosi, papà”
L’ultima frase dello spettacolo mi ha dato un brivido. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme ai protagonisti, dopo tutta la costruzione del rapporto tra il padre Ettore e il figlio Numero Primo, arriva il culmine del vero amore tra i due. Non credo esistano le parole per descrivere il momento: il figlio ha paura, è in pericolo, Ettore cerca di rassicurarlo, Numero Primo si lascia andare, vuole quasi esprimere la sua gratitudine per il padre e con quella semplice battuta mi ha scaldato il cuore. Quel coraggiosi, mi ha fatto riflettere sui temi della rappresentazione teatrale di Marco Paolini: la speranza e il futuro. Il drammaturgo, con la sua espressione preoccupata, con gli occhi aperti e, posso immaginare, lucidi, è riuscito splendidamente a trasmettermi inquietudine. Tuttavia con l’ultima frase sopracitata mi è arrivata addosso, quasi come un’onda di un mare burrascoso, la speranza. La speranza che dal mio punto di vista è ciò che ha voluto trasmetterci Paolini durante tutto il suo spettacolo, nascosta magari dietro ciò che poteva sembrarci banale.
Ecco quindi che quel Noi siamo diventando proprio coraggiosi, papà! mi ha lasciato fiducia e coraggio per affrontare nel migliore dei modi il futuro che è davanti a me, davanti a noi tutti.

Stefano De Rigo